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3 > 21 APRILE FEMININUM MASKULINUM uno spettacolo di Giancarlo Sepe

con (in ordine alfabetico) Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia
Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti,
Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli
e con la partecipazione di Pino Tufillaro
musiche Davide Mastrogiovanni | Harmonia Team
scene Carlo De Marino
costumi Lucia Mariani
disegno luci Javier Delle Monache
assistente costumista Isabella Melloni
scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia del Teatro della Pergola
macchinisti realizzatori Duccio Bonechi, Cristiano Caria, Francesco Pangaro, Filippo Papucci
produzione Teatro della Toscana
foto di scena Manuela Giusto

Dal 3 Al  21 APRILE
FEMININUM MASKULINUM
uno spettacolo di Giancarlo Sepe

INFO
Dal martedì al sabato ore 21 | domenica ore 18 (lunedì riposo)
Teatro La Comunità
Via Giggi Zanazzo 1, Roma
Info e prenotazioni
06 581 7413 – teatrolacomunita@gmail.com

www.teatrolacomunita.com

Acquista i Biglietti

https://www.ticket.it/teatro/evento/femininummaskulinum.aspx

 

L’ascesa di Hitler, la ribellione degli artisti. Alcuni si esprimono negli angoli bui, nei sotterranei,
altri decidono di scappare, e salvarsi la vita. Il nuovo spettacolo di Giancarlo Sepe racconta di
questi fuggiaschi.
La storia è scritta da donne e uomini, artefici e vittime di loro stessi. Il 30 gennaio del 1933 Hitler sale al
potere e tutto quello sognato e sperato nella Repubblica di Weimar: le promesse, le libertà culturali,
politiche, sessuali, quelle di genere, sono cancellate. Il teatro, la musica e il cinema cercano di
respingere le proibizioni sul pensiero, la patria, la famiglia e il sesso. Sono gli artisti a ribellarsi, a
ritrovarsi in posti nascosti come clandestini, cantanti, attori, romanzieri, drammaturghi, ballerini e
musicisti, scelgono di esprimersi negli angoli bui, nei sotterranei, nei letti, nelle strade e sono alcuni di
loro che in quel fatidico giorno, il 30 gennaio 1933, decidono di scappare e salvarsi la vita.
Thomas Mann, forte del Premio Nobel, cerca di resistere alla fuga e solo nel 1936 decide di lasciare la
Germania con la moglie Katia ebrea di nascita. Erano gli anni in cui i tedeschi guardavano all’America
come alla terra dove tutto è possibile, finanche accettare la musica nera, permettere a tutti, ebrei
compresi, di fare del cinema, tra questi Billy Wilder, il regista ebreo di origine austriaca che nella Berlino
de 1929 dà avvio alla sua carriera, mantenendosi, lavorando da ballerino per signore sole, in una
Ballsaal della capitale.
Hitler costruisce la nuova Germania desiderosa di annientare i nemici e diventare agli occhi del suo
popolo la razza eletta. L’efferatezza espressa in quegli anni, con uccisioni e rappresaglie, creano paura
e tracciano la strada di una perdizione che solo una guerra “persa” potrà sanare. Negli anni ’30, in
America, c’era la grande depressione e il proibizionismo che elessero personaggi come Al Capone a
eroe di un dissesto morale che spesso viene assimilato al terrore nazista. Tutti fuggivano, tutti
cercavano un posto dove stare e lavorare. Femininum Maskulinum racconta di questi fuggiaschi.

Thomas Mann nel giorno in cui gli viene sottratta la laurea ad honorem di Bonn e la cittadinanza
tedesca, nel 1936, attacca il nazismo e rinuncia, andando via dalla sua terra, a continuare quei giuochi
da mago che i figli gli chiedevano prima di andare a letto, per esempio: far sparire cose e persone, in
quel caso l’umanità gli sarebbe stata grata di aver salvato il mondo dalla tragedia. Ma fu lui a eclissarsi
in una città del New Jersey, a Princeton. I figli di Thomas Mann, invece, furono capaci di lottare da
subito contro la barbarie di chi voleva determinare la loro identità di genere. L’omosessualità era bandita
e combattuta, nonostante molti omosessuali popolassero il partito di Hitler.
Quali parole sono state dette in quegli anni, quali quelle sentite attraverso muri immersi nella città, in
balia di uomini e musiche che ammaliavano e atterrivano? Quali amori? Tutti inconfessabili e forti come
delitti, passi di gloria e di certezze svanite, uomini e donne, sorelle e amanti, con figli degeneri o forse
no. Sarebbe bello essere sé stessi e rimanere in un posto qualunque senza agguati o soprusi da
sopportare.

Giancarlo Sepe

Giancarlo Sepe - Il Teatro e la sua Comunità

Intervista a Giancarlo Sepe

SOLO TEATRO

di Marcello Albanesi

 

Può spiegarci meglio la dinamica e l'approccio del suo lavoro?

Esistono diverse fasi da affrontare. La prima è quella dell'ascolto della musica in cui ci raccontiamo che cosa significa per noi quella musica, una qualsiasi: un brano tratto da una colonna sonora, una sinfonia o anche una canzonetta. Dopodiché chiedo agli attori di andare sul palcoscenico e creare una loro improvvisazione su quelle stesse note ascoltate. Cia­scuno di loro avrà da raccontare un qualcosa che apparter­rà intimamente a sé stesso, qualcosa di originale e di unico. Finite le improvvisazioni subentra una fase di discussione e di confronto, perché spesse volte ci sono molte cose recondite e retoriche che vanno tolte, altre smussate. Ma questo è nor­male perché quando si lega un attore alla musica, il più delle volte, questi tende a esprimersi in maniera retorica, spesso ri­fugiandosi nei classici cliché, come dire: poesia è l'amore... l'amore è il cuore... il cuore è la perdizione. È in questa fase che esprimo il mio parere su quanto fatto dagli attori: posso dire che quella parte lì è interessante, mentre quell'altra è troppo retorica, o che l'altra ancora è didascalica e così via. Così facendo il meccanismo si evolve e lo studio prende for­ma, il mio scopo, spesso, all'inizio del percorso è proprio quello di tirar fuori gli attori da quei meccanismi didascalici tanto della musica quanto del pensiero, ma non solo. Studio con lo­ro la partitura musicale -sempre da attore per poi sviluppare insieme un'analisi approfondita del brano che, se è vero che in un primo momento può apparire -come dicevo prima- re­toricamente poetico o romantico o quant'altro, in seguito ri­vela sfaccettature e sfumature impensabili. Tutto ha una sua logica in ciò che ascoltiamo.

Dunque mi sembra di capire che la sincerità da parte dell'at­tore, più che in altri casi, è basilare per poter portare avanti lo studio. Tuttavia non sempre questo si verifica nei Laboratori: ci si imbatte a volte in certi attori/attrici che si sforzano di fare qualcosa solo perché costretti, magari perché hanno paura di fare brutta figura e poi così facendo la fanno davvero.

È verissimo. Ma questo è quello che si verifica anche ai provini. Tieni presente che i miei provini durano dai quindici ai quarantacinque minuti a persona. E non è detto che il primo provino sia quello buono: ci sono delle persone che hanno af­frontato anche cinque o sei provini di mezz'ora o più prima di poter lavorare con me. Questo perché io ho bisogno di capi­re, di capirli. La sincerità dell'attore è una conquista, non è una partenza. Questa è una cosa che va detta, perché han­no insegnato che l'attore è il massimo della finzione, dell'ac­corgimento della finzione. È anche vero questo nella gestione però della reiterazione dell'atto attoriale. Voglio dire: se si de­ve andare in scena trecento volte è chiaro che si dovrà ingra­nare una marcia là dove la finzione è parente a quello che si sente, a quello che si prova. È impossibile ripristinare ogni sera la stessa sensazione, la stessa tensione, no?|

Ma è proprio qui che dovrebbe subentrare; la tecnica.

Esatto. E la tecnica è, ovviamente, molto importante. Ma è importante anche partire da una verità. Tuttavia, come ben dicevi prima, non sempre si è abituati a questo, a partire da una verità - intendo. Ci sono mille cose che l'attore sprovve­duto mette in atto e che subito denunciano la sua assoluta lon­tananza da quello che sta facendo, da quello che sta dicen­do. E io, avendo un'esperienza più che trentennale, è lì che intervengo e in maniera anche abbastanza dura. A quel pun­to gli dico: se non ti diverti adesso che puoi sperimentare im­provvisando quali sono le tue sensazioni, non vedo davvero quando tu possa farlo. Per cui, sì, all'attore è richiesta una au­tonomia drammaturgica che poi io cercherò di mettere e im­mettere nel mio contesto di spettacolo.

Questo metodo lei lo attua anche durante le prove dei suoi spettacoli con la sua compagnia o anche con tutti gli attori, compresi i grandi attori, quelli che hanno già un'esperienza e un nome?

Assolutamente sì. Oggi lo applico sempre, anche se prima di arrivare a questa consapevolezza, a questa coscienza del fa­re ci ho impiegato molto tempo. Ho iniziato ad avere la sicu­rezza di quello che stavo dicendo dal '97, quindi dopo moltis­simi anni di attività. Ecco, in quell’anno ho capito che il mio metodo poteva essere diffuso anche all'attore... diciamo co­sì: già consacrato. E devo dire che le cose sono andate bene.

Ovviamente ci sono attori e attori, perché ci sono quelli che sposano pienamente questa ricerca e ne sono entusiasti e al­cuni altri, invece, che dicono di no perché per loro "la Parola regna sovrana", un concetto a cui io -di contro- non credo affatto. Anzi, tanto più sento come vera la battuta di un gran­de regista di Hollywood, Howard Hawks, che dice "...Per par­lare basta poco, uno si ferma e comincia a farlo. Ma per esprimersi con il corpo ci vuole molto di più ci vuole infatti una verità". Pina Bausch dice che mentre la Parola può men­tire, il Corpo non mente mai. Ed è vero.

Perché prima asseriva che solo dal '97 ha avuto la sicurezza che il suo è un metodo che funziona, quando invece su una scheda biografica che La riguarda leggo testualmente che: "... dal 1985 e per tre stagioni consecutive Giancarlo Sepe, progetta e realizza tre spettacoli in cui definisce il suo linguaggio teatrale e il rapporto fra testo non drammaturgico e narrazione scenica."

È vero. Prima chiedendomi se lavoravo allo stesso modo anche con gli attori di una certa fama, ecco ti dicevo che ci ho messo più tempo con loro. In realtà ho iniziato da subito a provare quest'ebbrezza della musica abbinata al movimento, ma il progresso è stato molto lento. E qualche volta anche concessivo, dipendeva anche da chi incontravo, perché ci sono persone sorde, e non lo dico dal punto di vista eufemistico o metaforico... ma proprio di persone che non sentono la musica e con loro diventa difficile lavorare. Così come ne ho incontrate altre su cui ho potuto incidere maggiormente, una per tutti Mariangela Melato, che aveva una sensibilità musicale nel corpo molto forte. Posso dire, allora, che se con i grandi attori ho attraversato delle fasi alterne in base a chi incontravo, con i giovani ho sempre portato avanti il discorso cercando un po' me stesso e un po' quello che dovevo dire di nuovo per loro. Dico questo perché secondo me è importante che chi intende frequentare il Laboratorio sappia che io non preparo l'attore accademicamente. Io trasmetto quelle che sono le mie esperienze e parlo di come faccio Teatro e di come lo intendo. Il che vuoi dire parlare di un settore della teatralità, della Ricerca. Non è l’attore accademico che potrà mai uscire dalle mie mani. Assolutamente, non lo pretendo proprio.

A volte mi scontro con attori che volendo arrivare all'Accademia tentano di usare il mio laboratorio allo scopo, ma bisogna che questi capiscano che il Laboratorio non è una scorciatoia per l'Accademia, è tutto un altro procedimento.

Visti i tempi, con la "fame" che c'è in giro specie nel mondo dell'Arte e del Teatro, è comprensibile tentare mezzi alternativi per farsi strada...

Forse sì. Chissà. Certo è che oggi avverto in modo di­stinto che non si faccia più un teatro per i giovani. Che cosa intendo? Che il teatro è morto e stramorto e c'è una noia tombale nelle sa­le, secondo me. Ora anda­re con i giovani verso la musica, verso l'azione, verso il movimento, il gesto che sia esemplificativo dello sta­to d'animo, della tensione attoriale, ecco... penso che sia il teatro del futuro. Non a caso parliamo di Pina Bausch, di Bob Wilson, di Peter Brook e di altri grandi. Perché hanno intuito nei loro paesi che que­sta era la strada da percorrere. Si badi bene che non parlo di mimo, bensì di gestualità corrente. Come se noi dovessimo esprimerci con i movimenti, con l'inclinazione del capo, coi movimenti delle braccia, come persone normali e non come se dovessimo stare su un palcoscenico. Ecco perché molti at­tori di cinema seguono il mio laboratorio perché li preparo anche a questa sensibilità cinematografica. Essendo io un ci­nefilo incallito, e avendo fatto anche molta televisione, teatro in televisione, so bene cosa significhi stare davanti alla came­ra, con tutto quello che ne consegue.

Non teme che parlare di "gesto" e di "gestualità" possa man­dare un messaggio travisato a chi non la conosce bene, la­sciando magari supporre che il suo sia una sorta di teatro-trombone all'antica italiana?

No, no. Non la vedo affatto così, intanto basti pensare che lavoriamo su ogni tipo di musica, dall’hip-hop, a Tom Waits, fino a Bach, Schubert... È la dimensione attoriale che si esprime come se stesse danzando con i sentimenti. Tant'è vero che a volte, proprio per questo, c'è il rischio che arrivino al Laboratorio dei ballerini. Cosa che io non voglio.

E se verranno lo stesso con i curricula falsificati negando fino alla morte di aver mai danzato? ..

Ma sì vengano pure, tanto me ne accorgo subito. Non per al­tro perché finiscono sempre con il mostrare i movimenti del balletto, della danza televisiva. E lì, però, perdo le staffe: non riesco a capire come loro possano vedere in quella espressivi­tà la propria emotività, io non la vedo. Si capisce che è qual­cosa fatto solo per apparire, per non significare nulla. Per que­sto mi permetto di dire che il teatro trombone non è il mio. Semmai il pericolo è al contrario! sono i ballerini che a volte seguendomi hanno dovuto mettersi in discussione e rivedere i loro stilemi, i loro canoni, i loro meccanismi imparati, io richie­do una duttilità quasi da attore cinematografi­co, dove non si deve notare che si sta reci­tando.

E se qualche ballerino voles­se essere re­dento e salva­to?

Ne ho avuti. E infatti sono stati anche salvati, è vero. Però ci vuole un'umiltà strepitosa.

Cosa significa per Giancarlo Sepe lavorare con il testo? Per­ché fino adesso abbiamo parlato del gesto e della musica.

Questi due elementi sono la prevalenza del mio lavoro, per­ché io sulla parola preferisco di gran lunga la parola senza accentazioni, senza particolari appoggiature vocali. Non amo la recitazione pomposa, retorica, poetica, quella che fa capi­re che sotto c'è uno studio, quello strazio dovuto alla patologia del personaggio. Questo perché sono molto legato alle patologie nascoste, ellittiche. Voglio dire che tutto ciò che è la rappresentazione dell'io dev'essere quasi intuita ma non chiarificata. Ecco perché io mi lego molto al Cinema, in quanto il Cinema ha bisogno di piccole appoggiature, picco­le intonazioni, di piccole situazioni. Tant'è vero che spesso nei miei spettacoli uso il microfono. Perché? Perché non voglio che l'appoggiatura sia di tipo teatrale e quindi preferisco un'appoggiatura sul diaframma di un certo tipo ma che non sia proprio quella straziata, roboante, macchinosa, quella che ti fa sentire in qualche modo in difficoltà... lo quando vedo attori di questo tipo, mi dico: ecco questo non ci crede nem­meno un po' a quello che dice. Perché la tecnica in qualche modo divora quel po' di verità che c'è dentro. Quindi mi muovo in meccanismi molto semplici della recitazione. Tal­mente semplici che a volte mi sento dire: "Ah... ma che è tut­to qua?". Sì, è tutto qua. Però bisogna tenerlo veramente que­sto tutto-qua. Si usa dire spesso: "ma non sarà poco quello che faccio?". La mia risposta è: no, meno fai meglio è. Tuttavia a "limare", a "togliere"si fa sempre in tempo, no? Certo. Anche se dire: dacci dentro, in realtà vuol dire fare un'operazione di spurgo, che è quello che faccio anche io. Dico: adesso tu hai il palcoscenico per un quarto d'ora, dacci dentro. È chiaro che l'attore che ha appena cominciato non sarà mai uguale a quello dopo un quarto d'ora di azio­ne. Alla fine questo attore sarà spompato, eseguirà meno mo­vimenti, meno battute intonate o appoggiate. Ebbene, da quel momento in poi inizia a emergere quel realismo dovuto alla stanchezza che pone l'attore a non ergersi sul palcosce­nico per dimostrare quanto e come è bravo: Per questo sono solito dire all'attore: ora dai il meno di te, non il meglio di te, perché se tu mi darai il meglio di te non farai altro che debor­dare, uscire fuori dai canoni della credibilità e sarai un qual­cosa di troppo. È ciò che accade anche nell'Opera lirica, che anche ho diretto. Spesse volte ho dovuto chiedere al te­nore o al soprano di "non spingere qui sennò mi snaturi la bat­tuta che pronunci". Anche cantando, pensa. Quindi preferi­sco sempre chiedere il meno di sé e non il meglio alle audizio­ni, perché mettendo tutto il proprio mondo in questo quarto d'ora, si sbaglia facilmente.

Lei ha più volte sottolineato quanto il Cinema sia importante per il suo teatro, dalle luci al montaggio... Si tratta di una scelta, di uno studio...

Posso dire che la risposta è nelle mie origini. Ho iniziato nel '67 con le Cantine, o come vedi ci sono ancora, perché queste sono elementi di studio, di fucina assolutamente irrinunciabili.

Tutto ciò che ho fatto, anche nei palcoscenici ufficiali, sono frutto di uno studio messo in atto nelle cantine. In queste, allo­ra, ciò di cui noi ci pascevamo era proprio il buio, il nero. Il ne­ro: è come dare e togliere lo spazio limitato; non narrare che lo spazio è angusto ma - anzi - offrire questa immagine in cui non si definiscono i contorni, in cui tutto è possibile. Questa è la mia natura e la mia origine. Dal buio delle cantine ho inizia­to a limare le immagini. È chiaro che poi in uno spazio nero si prende gusto a sagomare un'immagine: dipende da ciò che si vuole vedere. Si vuol vedere la sedia soltanto con il tavolo? Si agirà di conseguenza. Si preferisce evidenziare parte della sedia, oppure si vuol mostrare uno sguardo e non il corpo? Con l'aiuto delle luci si può fare. Si può fare tutto. E proprio sagomando gli eventi scenici ho provato la sensazione di stare girando un film piuttosto che "scrivere" una narrazione tea­trale. Perché in quel momento parcellizzavo lo spazio teatrale rendendolo come fosse frutto di una ripresa cinematografica: con delle vere e proprie inquadrature. Grazie ai giochi di luce ho la possibilità di "girare" i miei primi piani, i miei dettagli, i miei campi lunghi, i miei piani americani, i particolari, eccete­ra. Con il passare degli anni questo uso della luce mi ha por­tato anche a perfezionare sempre più quello che nel Cinema è il montaggio e che nei miei spettacoli riveste la stessa importanza. Se in un film si sbaglia il montaggio, si è sbagliato tutto.

Quale regista cinematografico, Le è stato o riconosce come maestro?

Tra i tanti, due in particolare sono i miei preferiti: John Ford e Hitchcock.

E aggiungerei anche Fellini, che però è il "mondo del Cinema". Dicevo John Ford e Hitchcok per un uso molto particola­re delle luci. Tutti e due avevano uno stampo molto teatrale... Basta vedere come Hitchcock girava gli interni; il suo enfatiz­zare i particolari addirittura alterando le dimensioni degli og­getti: per mostrare che in quel preciso momento il telefono è il punto importante nella scena, cosa fa?, invece di limitarsi a illuminarlo in certo modo, lo fa più grande. E, guardando il film, ci si chiede: ma come mai il telefono balza sempre all'occhio?

Giancarlo Sepe dopo essersi costruito un percorso di tutto ri­spetto, dopo aver lavorato con i più grandi attori del nostro panorama, non sente l'esigenza di oltrepassare i confini del­l'Italia? Non voglio dire che Lei sia sprecato nel nostro Paese, ma ho il sospetto che all'estero avrebbe una risonanza mag­giore. L'italiano rimane ancorato, forse per pigrizia, a un certo provincialismo...

A dire il vero penso la stessa cosa. Ora non voglio fare il pove­rino della situazione, tipo nemo propheta in patria... Insomma le solite cose. Ma è vero anche che certe mie determinazioni nel fare certo tipo di teatro non hanno il sapore delle nostre coste e dei nostri climi. E in questo senso mi sto muovendo per far nascere il prossimo spettacolo proprio all'estero. Non voglio dire troppo ma... fai conto in Nord Europa. Per quanto riguarda la tua considerazione, è vero: c'è una pigrizia men­tale, una forma di cinismo nello spettatore nostrano, anche in quello più avvezzo, e che elude quelli che sono -o possono essere- i balzi in avanti della Ricerca. In Italia questo vale tan­to per la critica quanto per il pubblico, rimane sempre valido il classico atteggiamento superficiale: se // prodotto non lo capisci non è buono, e allora non vale la pena di essere ca-pito; se invece lo capisci allora lo elimini perché è banale. Questo atteggiamento colpisce anche me che a volte metto in essere operazioni "guardando avanti" così da diventare per alcuni uno che spiazza, poiché non sono una persona rassicurante e quindi non catalogabile. Al massimo posso es­sere "quello che fa la ricerca sul gesto". A questo proposito mi piace sottolineare che gli spettacoli non sono altro che il prodotto di un proprio cammino e ci tengo a dire -anche a quelli che seguiranno il laboratorio - che la ricerca non è un punto di partenza. Non si ricerca perché giovani. La Ricerca è un punto di arrivo. Non è pensabile iniziare dicendo "ora co­mincio a ricercare" e così facendo ci si sente tanto attori.

Sono d'accordo. Purtroppo, al di là di quelli che sono i gusti personali, trovo che la maggior parte di coloro -salvo rarissime eccezioni- che si gloriano di fare avanguardia, post-avanguardia, sperimentazione... in realtà non facciano teatro. Anni fa una regista che stava mettendo in scena uno Shakespeare (rivisitato) per spiegarmi la sua poetica mi disse: "... Hai presente Wilson? Ecco io vado oltre, lo supero." Assi­stetti a una prova del suo spettacolo, fuggii.

lo credo, e ne sono convinto che per ricercare davvero si debba partire dalle radici. Pur partendo da una sperimentazione, ho comunque affrontato il teatro ufficiale, il teatro di te­sto, di attori. E oggi ho capito che per ricercare bisogna ave­re una certa maturità. Non è possibile che la ricerca sia abbi­nata a chi ha diciotto anni o ventuno. Se ci si nasconde sotto l'egida della ricerca per motivare il proprio teatro è inevitabi­le creare cose mostruose.

Come dire: Picasso prima di arrivare a dipingere il celebre "Guernica" ha ritratto suo figlio Paulo con la maschera d’Arlecchino, no?

Infatti. Se non si sa disegnare un volto ma si dipinge una faccia con tre occhi non si può dire che si sta sperimentando. No. Non si sta facendo nulla. Ecco perché insisto nel sottoli­neare che la ricerca è un arrivo non una partenza. È possibile capire che si sta ricercando dopo anni e anni di attività, il che non significa che non si possano creare lo stesso dei mo­stri. Tuttavia la buona fede salva parecchio. E quello che di­cevi è vero. Perché ci sono molte persone che per giustificare il loro fare teatro dicono di fare ricerca. Ma in realtà il loro la­voro dimostra che questi non sanno nulla, assolutamente nul­la. Nemmeno la loro "poetica", chiamiamola così, tanto per dire un parolone... E questo è un problema vero soprattutto perché a rimetterci sono tanti giovani attori. È un problema che mi pongo anche io stesso. Tuttavia io lavoro in maniera continuata, portando avanti il mio discorso e senza fare alcun dualismo. Voglio dire non faccio il lavoro di laboratorio escludendo il lavoro di prassi scenica annuale, lo sono un combattente attivo e non mi ritraggo nel primo laboratorio per poter lavorare.

In virtù di tutto questo non teme che il fatto stesso di lavorare nelle cantine possa dare un messaggio demodé ai giovani?

Nell'accezione di cui parlavamo prima non è demodé, è stra-demodé, è degagé è tutto. Ma io ti dico che la cantina non è l'elemento di narrazione, l'elemento linguistico della mia ri­cerca. Tant'è vero che tutto quello che io faccio sia alla Co­munità sia -per esempio- quest'anno all'Argentina o negli an­ni passati all'Eliseo, sono esattamente le stesse cose. Quindi io porto l'attore a esprimersi in questa direzione. Demodé è chi non ha saputo stare con i tempi.

Mariangela Melato, Aroldo Tieri, Giuliana Lojodice, Romolo Valli... Carla Gravina, Lillà Brignone, Ottavia Piccolo... ...e molti altri ancora. Stiamo parlando di mostri-sacri della scena italiana. Come concilia questo suo alternare il lavoro con i grandi attori e poi con i giovani? Sembra il suo un dare ai giovani, un trasmettere la sua esperienza ma anche attin­gere da loro idee ed energie nuove.

Non c'è dubbio. Ho sempre pensato che la prima ricchezza per i giovani è la forza di rappresentarsi per quello che sono. Non ho mai detto male di un giovane perché giovane, che non ha esperienza. Perché il senso di immortalità che dà un giovane che non ha paura di niente e che cerca di trovare negli atteggiamenti più pericolosi, più estremi, più marginali, più borderline, più equivoci il suo essere, trovo che offra un prezioso materiale per capire l'Oggi, E quindi mi imbevo asso­lutamente delle loro tematiche dei loro sguardi e delle loro forze, che non conoscono né ragione, né costume e né pru­denza.

In un epoca televisiva come la nostra, anche le scuole di teatro sono diventate uno strumento mediatico per attirare audience. Sempre più spesso il messaggio è quello che basta apparire in TV per avere successo.

Personalmente non mi sento di criticare alcuna esperienza, nemmeno quelle televisive. Pre­ferisco pensare -come sempre faccio- all'unicità delle perso­ne, non credo esista la catego­ria giovani. O meglio penso che ci sia la categoria dei giovani con dei geni dentro. Co­me è anche nella categoria delle persone che sanno qual­cosa di più o che hanno più anni. Quindi non sono uno schi­filtoso, non sono uno che punta il dito e dice questo non si deve fare. È pur vero che i modelli di qualche anno fa erano al­tri, si sognava di diventare come Gassman, come Albertazzi e altri personaggi di questo calibro. I modelli di oggi non sono più gli stessi, sono 'modelli televisivi. Ma come si fa a condan­nare i giovani che vogliono -giustamente- stare con i tempi. Tutto sommato, poi, è anche vero che come io andavo a teatro già a dieci anni, da solo (arrivavo al botteghino e la cassiera non vedeva chi gli stesse porgendo i soldi perché ero piccolo), sono sicuro che anche tra i giovani ci sarà sem­pre quello più curioso che cercherà di capire cosa significhi fare il teatro vero e non solo quello televisivo o danzato e cantato, ma anche quel teatro che ha avuto un certo peso nella nostra costruzione culturale. Non credo esista l'erba che faccia un fascio, no. C'è sempre una singolarità, infatti sono solito dire agli attori che seguono i miei laboratori: io non vo­glio correggere i vostri difetti perché sono le vostre caratteri­stiche, le note che vi distinguono. E in quel momento non fac­cio altro che potenziare il difetto per farlo diventare una virtù. E anche se spesse volte si è convinti di conoscere i propri di­fetti non sempre è così. Per prima cosa bisogna tirarli fuori tut­ti, prenderne coscienza. E non è semplice. Quando faccio no­tare a qualcuno un qualche errore, o un qualcosa che non va, ecco che a quello scattano tutte le difese possibili: "Chi -io - come - quando - perché". Perché bene o male ognuno ha le sue insicurezze dovute a delle proprie peculiarità vissute male e temute: un naso pronunciato, un andatura particola­re, uno sguardo bieco, piuttosto che uno sguardo morbido... Meccanismi che in certe accademie si tenta di uniformare, di limare o di togliere. Personalmente rimango del parere che anche i nostri difetti fanno parte della nostra potenzialità d'attore. Si dice che la differenza arricchisce? Credo sia vero.

Il teatro italia­no oggi?

Io vorrei dire che del teatro italiano ho avu­to modo di conoscere il più grande regista che abbia mai incon trato sulle scene ac­canto a Kantor (che per me è stato un grande maestro - dopo aver visto La classe morta ho capito più di quanto non avessi fatto prima), mi riferisco a Giorgio Strehler. Il più grande regista che abbia mai visto sulle tavole di un palcoscenico. Aveva una incredibile capacità di lavorare con l'attore an­che giovane, e guarda caso usava la musica, il movimento, oltre all'interpretazione del testo. Ci fossero più Strehler ci sa­rebbe meno noia e più grandezza nel nostro teatro. Purtrop­po l'epoca Strehler è finita e così si cerca di assecondare il vecchio pubblico con dei palliativi. Come a dire: non abbia­te paura vecchi spettatori perché troverete le cose che vole­te trovare e che avete già incontrato. In pratica si fa di tutto perché lo spettatore esca dal teatro esattamente come è entrato, senza avergli creato né un trasalimento, né un pen­siero, né una resipiscenza (ovvero un rinsavimento), né una volontà di analizzare se stessi né tanto meno il testo. Ci sono spettatori poi che vanno a teatro e non sanno neanche il ti­tolo dello spettacolo che stanno per vedere. Questo per dirti in realtà che il teatro si deve rifondare anche grazie ai giova­ni, a coloro che non pensano che dire teatro equivalga a di­re cultura uguale noia. Rossellini diceva: "per me l'impegno non si coniuga con noia ma si coniuga con divertimento."

In compenso Eleonora Duse auspicava un rinnovamento del Teatro attraverso la sua distruzione e l'annientamento di tutti gli attori e le attrici.

Non bisogna dimenticare però che la Duse era innanzitutto un'attrice lei stessa e che conosceva bene i suoi simili. Anche se non era così sbagliato il concetto nell'accezione da fine del mondo. Ora non ricordo chi fosse che diceva: la cultura è ciò che rimane dopo aver distrutto tutto. In realtà più si impe­disce al vecchio teatro di esprimersi e più si offre questa stes­sa possibilità ai giovani, e più si darà la possibilità a noi di uscirne. Bisogna aver più coraggio di osare e non affidarsi so­lamente alla sicurezza del già noto, del già conosciuto, per­ché questa strada non porta da nessuna parte. Vedi io nasco teatralmente parlando in un periodo storico particolare, nel momento in cui serpeggiavano a Roma decine e decine di compagnie speri­mentali, in un pe­riodo in cui la for­za innovativa del teatro non era le­gata da una squadra perché ognuno faceva il proprio teatro; in un periodo in cui c'era una voglia di sovvertire le regole…

Oggi non è imma­ginabile quanto è stato in quel periodo, quello che avete vis­suto.

Lo so, è vero. Ma sai cosa bisognerebbe fare prima o poi? Una sorta di antologia del momento, cioè raccontare mo­mento per momento, come se fosse un romanzo a puntate, rac­contare veramente cos'erano quegli anni, perché è difficile da far capire, sembrano fantascientifici.

Volendo dire un’ultima cosa a ruota libera?

Vorrei dire solo questo. Ai miei inizi l'idea dell'appartenenza, della compagnia era molto sentita. La Compagnia non era soltanto un luogo dove stare, ma era proprio un confrontarsi più volte con gli stessi compagni di viaggio. Perché quando si ha una Compagnia, un gruppo si ha più modo di crescere. Ritengo il gruppo una cosa davvero importante. La mancan­za di questo sentire il gruppo, forse è questa una delle cause che rendono difficile oggi capire quegli anni. Ma di questo magari ne parleremo in un'altra intervista.